Dal banco di frutta a un fondo di venture capital a Londra: la storia di Francesco Perticarari


A Londra c’è un investitore italiano che a 33 anni ha già raggiunto una certa fama. Il motivo è semplice: è l’unico che guida un fondo di venture capital in solitaria, e che condivide tutto con la sua community. Lo abbiamo incontrato.

Tra i venture capitalist e gli startupper europei comincia ad esserci un certo senso di urgenza. La sensazione sempre più forte è che se non ci pensano loro, a risolvere i problemi del mondo, non ci penserà nessun altro. Prendiamo la fusione nucleare: gli Stati europei hanno investito decine di miliardi. Il progetto più importante, Iter, ha subito diversi ritardi nella costruzione.

Prima ancora che venga completato, una piccola startup tedesca (Proxima Fusion) guidata da un italiano (Francesco Sciortino) potrebbe riuscire a costruire un reattore dimostrativo (anche grazie, va detto, alla filiera creata da Iter). Per ora esiste solo su carta, ma è stato abbastanza per raccogliere una cinquantina di milioni – per un progetto a cui serviranno miliardi.

Secondo l’ultimo report di Dealroom dedicato al deep tech, l’Europa ha il potenziale per diventare un hub globale per le tecnologie avanzate. Ha 6 delle prime 20 università e 9 dei primi 25 istituti di ricerca del mondo, specializzati in tante tecnologie diverse. Quello che manca, dice il report, sono cultura imprenditoriale e assunzione dei rischi.

Insomma, al deep tech – quella parte dell’innovazione dedicata alle tecnologie più complesse, vedi la fusione nucleare – servono soldi e servono in fretta. Francesco Perticarari ne aveva talmente tanta che ha deciso di fare da solo.

Cresciuto a Macerata, appena finito il quinto superiore è scappato in Inghilterra. Arrivato a Londra, ha visto un piccolo stand che vendeva frutta. Ha chiesto un lavoro, lo ha ottenuto. Un mestiere che aveva già fatto a Macerata, aiutando l’attività di famiglia.

Mentre ancora lavorava nello stand (inventandosi con un amico un piccolo business di consegna di frutta fresca ai pub della città) è entrato nel tech. Ha iniziato a studiare informatica, si è laureato alla Goldsmiths university, è diventato computer scientist. Con altri due cofondatori ha costruito un meetup per founder nel settore deeptech: partito da un pub, è diventato il più grande di questo tipo in Europa, prendendo il nome da Silicon Roundabout, zona considerata la (piccola) risposta londinese alla Silicon Valley, piena di startup, centri di co-working e innovazione.

Successivamente, senza nessuna formazione da venture capitalist, l’italiano ha iniziato a investire come ‘angel’. Alcune delle aziende in cui ha investito oggi registrano fatturati di circa 50 mln di euro. “Ho usato tutti i miei soldi, ho chiesto un prestito. Mi sono buttato”, ci racconta dopo aver partecipato a uno dei panel della tappa londinese del tour d’innovazione di Smau, una piattaforma dedicata alle startup che ogni anno hanno l’occasione di incontrare i sistemi di innovazione più avanzati d’Europa.

Tra questi ecosistemi Londra, per distacco, è il primo in assoluto. Sempre secondo il report di DealRoom nel Regno Unito nel 2024 il venture capital ha investito 4,2 mld di dollari nel deep tech, 1,2 mld in più della Francia e 1,5 più della Germania. L’Italia guarda da lontano, con appena 300 mln. E mentre la capitale inglese da sola vale 2,5 mld di investimenti, Milano (l’unica italiana che avrebbe la speranza di competere) non è neanche nelle prime venti città europee.

È a Londra che Francesco è riuscito a prendersi un altro primato: nel 2023 dal meetup ha fondato Silicon Roundabout Ventures, un fondo da 5 mln di sterline, con il sostegno di attori come Molten Ventures, Multiple Capital e gli italiani di P101, ma anche founder ed ex dirigenti di startup già arrivate all’exit. Tre di queste erano ‘unicorni’. Un’altra è quotata al Nasdaq: la Docebo di Carlo Erba, uno degli investitori.

“Ho fatto 16 investimenti in quasi due anni, focalizzandomi su settori come quantum computing e difesa”, racconta Perticarari. Di solito, spiega, investe tra i 150 e i 200mila dollari.

Perticarari ha attirato l’attenzione degli altri investitori anche per un altro motivo. “Pubblica online quasi tutti i documenti relativi agli investimenti, così che la comunità ne sia sempre al corrente. È un approccio insolito, e molto interessante”, ci dice uno dei venture capitalist di base a Londra con cui abbiamo parlato. “Ormai è molto conosciuto, anche perché fare il general partner da solo non è privo di rischi: se ti succede qualcosa il tuo fondo che fine fa?”.

“Se vuoi giocare a questo gioco lo devi fare bene”, dice Perticarari, che sull’approccio italiano al venture capital è molto critico. Dice che il suo lavoro consiste nell’andare a caccia di leader che “abbiano sia la capacità tecnica di costruire tecnologie mai commercializzate prima, sia la visione per trasformarle in un business di successo. Gli americani ci hanno insegnato che bisogna dare fiducia a persone che a prima vista potrebbero essere pazze”. I “Messi dell’innovazione” che il venture capitalist deve cercare, dice Perticarari, non possono emergere se chi dovrebbe dargli una mano “ha bisogno di ‘insegnarti cosa vuol dire essere una startup’. Vedo tanti, troppi acceleratori, e poca propensione al rischio”.

Ma il ritardo dell’Italia nel venture capital secondo Perticarari è una questione di numeri. Soprattutto dei numeri richiesti alle giovani imprese. “Ho incontrato una startup alla quale è stato chiesto il 15% di equity in cambio di 250mila euro. Un accordo del genere ti rende completamente non-investibile”. Non è un caso se in Italia Perticarari ha un solo investimento, “in una startup che non ha chiesto fondi ad attori nazionali, ma europei”, racconta parlando di Ephos, che si occupa di quantum chip fotonici.

L’obiettivo del venture capitalist marchigiano è arrivare ad avere la maggiore azienda di venture capital paneuropea specializzata nei round iniziali (pre-seed e seed) delle startup deep tech: “Non credo nei mega fondi che diventano più simili al private equity. Voglio continuare a supportare giovani che lasciano l’università e le grandi aziende per lanciare la propria idea”.

Da italiano trapiantato in Uk e sposato con una spagnola, Perticarari pensa che tutti nel continente debbano “smettere di pensare in termini di italiani contro britannici, spagnoli contro francesi”, dice durante il panel dell’evento londinese, davanti agli startupper italiani a caccia di investitori. “Siamo di fronte a una competizione agguerrita con Cina e Usa e se continuiamo a ragionare in questo modo questa guerra non la vinceremo mai. Mi rivolgo alle startup, alle istituzioni, agli investitori, alle aziende: per favore, pensiamo come europei”.

L’articolo originale è stato pubblicato sul numero di Fortune Italia dell’aprile 2025 (numero 3, anno 8)



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