Private equity, Italia indietro: da noi la metà dei fondi della Germania


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L’industria tricolore cresce ma resta lontana da quella degli altri grandi Paesi UE. Raccolta e dimensioni i maggiori punti deboli. L’analisi Aifi, Equita e Mcp

Il private equity italiano è in crescita da oltre venticinque anni, ma resta ancora indietro rispetto a quello degli altri grandi Paesi europei. Colpa soprattutto della dimensione dei fondi, che si conferma contenuta, e della raccolta, principale punto debole dell’industria tricolore. È quanto emerge da uno studio presentato da Aifi, Equita e Mindful capital markets, che evidenzia un ritardo strutturale in termini di masse gestite e numero di operatori.

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Meno fondi e più piccoli rispetto all’estero

Attualmente i soci dell’Associazione italiana del private equity, venture capital e private debt sono 183, in netta crescita rispetto ai 73 del 2000. Di questi, 63 operano nel private equity, contro i 53 di venticinque anni fa. Nonostante il numero complessivo di operatori di private capital sia più che raddoppiato, i full member sono però ancora troppo pochi e rappresentano meno della metà di quelli presenti in Germania, dove se ne registrano 383, e decisamente meno di quelli francesi (231). Ma soprattutto, il mercato tricolore è dominato da fondi di dimensioni contenute, riflesso di un tessuto imprenditoriale composto prevalentemente da piccole e medie imprese, dove oltre la metà delle aziende in portafoglio ha meno di cento addetti.

Il vero punto debole dell’industria resta poi la raccolta: da noi i fondi superiori a 500 milioni di euro sono una rarità. Basti pensare che, tra il 2020 e il 2024, la Francia ha raccolto con fondi di private equity e venture capital circa 25 miliardi. L’Italia appena 5 miliardi. Un divario in parte dovuto alla presenza di un investitore pubblico molto attivo nel Paese transalpino e a politiche di moral suasion efficaci (soprattutto verso le assicurazioni), ma che si ripercuote sugli investimenti. Parigi e Madrid, infatti, fanno meglio di noi in questo senso. Nel periodo 2019–2023, meno dell’1% delle piccole e medie imprese italiane è stato oggetto di investimento di private equity, contro il 3,8% francese. E anche la Spagna ci ha raggiunti, grazie a una crescita più veloce in questi anni. Infine, tra le conferme della nostra debolezza strutturale spicca anche la crescita del cosiddetto capitale ‘fuori sistema’, dove la presenza di canali alternativi come club deal, SPAC, holding e family office ha intercettato una parte crescente del capitale privato al di fuori dei fondi istituzionali.

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“Copiamo la Francia”

“Fa riflettere la presenza di un numero esiguo di fondi in grado di completare operazioni, pur sempre di midmarket, ma di maggiori dimensioni, nella fascia da 50 a 150 milioni di ticket. C’è un problema strutturale che va affrontato”, ha sottolineato Filippo Guicciardi, co-ceo di Equita Mid Cap Advisory. E sulla stessa linea è Lorenzo Stanca, managing partner Mindful Capital Partners, per il quale “è necessario che finalmente chi governa comprenda come lo sviluppo del private equity sia uno straordinario strumento di crescita, tanto più in un sistema come il nostro fatto di piccole aziende”. “Il modello c’è, copiamo la Francia”, ha concluso.

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