I DAZI USA E I RISCHI PER LE PMI ITALIANE


di Paolo Longobardi, Presidente onorario Unimpresa

L’Italia esporta beni negli Stati Uniti per un valore di 60 miliardi di euro l’anno, pari a oltre il 10% delle esportazioni totali. Un flusso cruciale per la nostra economia, soprattutto in settori come la farmaceutica, la cantieristica, l’aerospazio, i macchinari e l’arredo. Ma l’inasprimento dei dazi commerciali varati dall’amministrazione statunitense rischia ora di colpire in modo diretto e indiretto una parte significativa del nostro tessuto produttivo. L’esposizione complessiva al mercato Usa rappresenta circa l’8,1% del valore aggiunto del comparto manifatturiero italiano, pari a 1,2 punti di pil; il 6,4% è legato all’export diretto, mentre il resto è connesso a beni intermedi italiani impiegati in filiere globali che sfociano poi negli Stati Uniti.

Nel breve termine, però, l’Italia ha alcune carte vincenti da giocare. Anzitutto, la composizione settoriale delle nostre esportazioni: prodotti ad alta qualità (43%) e media qualità (49%), destinati in gran parte a consumatori e imprese ad alto reddito, meno sensibili agli aumenti di prezzo. Inoltre, oltre metà dell’export verso gli Usa è in mano a grandi imprese(con più di 250 addetti), dotate di una maggiore diversificazione produttiva e commerciale, dunque più resilienti a shock di mercato.

C’è poi la redditività media: il margine operativo lordo delle aziende manifatturiere esportatrici negli Usa è attorno al 10% del fatturato, e per il 75% delle imprese è superiore al 5%. Questo consente, in molti casi, di assorbire l’aumento dei costi legato ai dazi senza impattare troppo sulla redditività complessiva. Un aumento dei dazi fino al 20-25% – qualora fosse confermato dopo la moratoria di 90 giorni recentemente annunciata dal presidente americano Donald Trump – comporterebbe una riduzione media del fatturato dell’1% e una contrazione dei margini al massimo di mezzo punto percentuale per tre imprese su quattro. Un effetto gestibile, almeno per chi ha basi solide.

Tuttavia, non tutte le aziende italiane si trovano nella stessa condizione. Tra le 34.000 imprese esportatrici verso gli Usa, quelle di piccola dimensione, con margini già compressi e una forte dipendenza dal mercato statunitense, sono le più vulnerabili. Per queste realtà, anche un calo del 15-20% delle esportazioni può significare il passaggio da utile a perdita. Le stime indicano che, nello scenario di dazi pieni, la quota di imprese con perdite elevate aumenterebbe di 4 punti percentuali. Il deterioramento riguarderebbe soprattutto aziende con minori riserve, minore capacità di manovra sui costi e un portafoglio clienti fortemente concentrato sugli USA.

Il punto più critico, però, riguarda l’effetto sistemico. Finché i dazi restano contenuti agli scambi bilaterali, l’Italia può parzialmente difendersi. Ma se le tensioni commerciali dovessero esplodere in una guerra commerciale su larga scala, con effetti sulla domanda globale, sulle catene del valore e sui mercati finanziari, allora le ripercussioni diventerebbero più gravi e pervasive. Il ritorno a un saldo positivo delle partite correnti nel 2024 (pari all’1,1% del pil, dopo il pareggio del 2023 e il -1,7% del 2022 legato allo shock energetico) è il segnale che il sistema sta ritrovando un equilibrio. Ma basterebbe un nuovo choc globale a vanificare questo fragile miglioramento.

L’Italia industriale regge: qualità dei prodotti, diversificazione e buoni margini sono uno scudo efficace contro l’onda d’urto dei dazi americani. Ma non tutte le imprese hanno lo stesso scudo. E se il conflitto commerciale diventasse globale, il nostro export – motore della crescita – rischierebbe di incepparsi. Serve, dunque, una strategia europea di difesa comune, ma anche un sostegno mirato alle pmi più esposte, perché nella guerra dei dazi i danni collaterali si contano in filiere produttive che si spezzano e posti di lavoro che si perdono.

Ufficio Stampa Unimpresa
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