Siamo alle solite. Appena esce un report con dati sugli stranieri che fanno impresa, ecco che partono gli osanna, le fanfare dell’integrazione e le trombette delle buone intenzioni. Il comunicato di Confartigianato Sardegna non fa eccezione: 1.600 imprese artigiane guidate da titolari stranieri, pari al 15,2% del totale. Un dato che dovrebbe sollevare entusiasmi, anche se l’Isola si piazza terz’ultima nella classifica nazionale. E quindi?
Ci spiegano che gli immigrati aprono aziende nel settore edile, nei servizi alla persona, nella ristorazione, nel confezionamento di abbigliamento. Ottimo. Nessuno nega che chi lavora onestamente e paga le tasse abbia diritto a rispetto. Ma ci risparmino la solita litania sull’inclusione, sull’arricchimento culturale, sulla “trasformazione profonda di settori chiave”. Le imprese straniere crescono? Bene. Ma non raccontiamoci che sia tutto rose e fiori.
Giacomo Meloni, presidente di Confartigianato Sardegna, ricorda che «l’immigrazione va governata, non subita». Un lampo di lucidità in mezzo al fumo. Già, perché dietro le imprese in regola, ce ne sono altre che operano nel sommerso, senza tutele, né per i lavoratori né per i clienti. Lo dice anche il segretario Daniele Serra: «Bisogna far emergere le sacche d’illegalità». Ma poi giù di nuovo con il sermone sull’importanza del lavoro come strumento di inclusione. Che palle.
Nel dettaglio, Sassari-Gallura guida la classifica sarda con 819 imprese artigiane straniere, seguita da Cagliari, Nuoro e Oristano. Quanto alla provenienza, troviamo Senegal, Marocco, Romania, Cina, Germania. Insomma, un melting pot che farebbe felice qualsiasi assessore multiculturale.
Curioso notare come siano proprio gli over 50 e addirittura gli over 70 a trainare la crescita. Sarà perché i giovani italiani, tra stage non pagati e contratti a chiamata, preferiscono emigrare o campare coi lavoretti?
Certo, lo capiamo: l’imprenditoria straniera può coprire buchi lasciati da un sistema produttivo nazionale in affanno. Ma invece di glorificare i numeri, qualcuno dovrebbe chiedersi perché in Sardegna (e in Italia) aprire un’impresa sia diventato un atto eroico per un cittadino qualunque, mentre molti stranieri – senza santi in paradiso – ci riescono. Forse, piuttosto che usarli come specchietto per le allodole, sarebbe il caso di garantire le stesse opportunità anche agli italiani.
Perché, alla fine, una cosa è certa: quando si tratta di cantare le lodi dell’integrazione economica, tutti in coro. Ma quando si devono affrontare i problemi reali del lavoro, dell’illegalità, della concorrenza sleale e dell’accesso al credito, allora cala il silenzio. E in quel silenzio, più che inclusione, si sente solo la solita vecchia retorica che ci prende per fessi.
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