Come si muove il consumo di vino, quali caratteristiche dovranno avere le imprese italiane? I dati delle Università di Bordeaux e Verona
Come si sta muovendo il consumo di vino, cosa succederà nei prossimi anni, e quali caratteristiche dovranno avere le imprese italiane del vino per garantirsi un futuro? A tutte queste domande ha provato a rispondere la ricerca “Resilienza e preparazione al prossimo ciclo di consumo globale di vino. Masi: Un caso studio originale”, realizzata grazie alla collaborazione tra due Università, quella di Bordeaux e quella di Verona, non a caso in due aree storicamente vocate alla produzione vitivinicola. In occasione della presentazione anche alcune considerazioni dei relatori rispetto ai dazi minacciati dagli Stati Uniti.
Il consumo di vino è ciclico
La base di partenza di qualsiasi considerazione è che il consumo di vino è ciclico, quindi a parte i trend che caratterizzano le abitudini di consumo nella storia, il consumo è comunque legato all’andamento dell’economia e a una fase di calo ne segue una di crescita.
Il boom economico negli Anni 60 fa crescere i consumi, ma questi calano quando si affacciano le prime crisi petrolifere negli Anni 70, e l’inflazione sale. Il vino è un “bene non essenziale” del quale si fa a meno quando la capacità di spesa delle famiglie si riduce. Nel 1994 parte un nuovo ciclo di crescita fino alla crisi dei mutui subprime, poi la pandemia, e l’attuale incertezza, da cui il calo drastico dei volumi di vino consumati. Jean-Marie Cardebat, professore di economia all’Università di Bordeaux, prevede però una ripresa del consumo nel 2026-27, perché l’inflazione sta scendendo.
In questo andamento ciclico il consumo di vino tende alla premiumizzazione in maniera lineare: dopo la II Guerra Mondiale si beveva più vino, nella quotidianità e ai pasti, ma con un contenuto alcolico più basso; oggi il consumo ha un connotato di piacere e il vino è di qualità superiore, si privilegiano i vini Doc e le denominazioni, e i brand forti, perché i consumatori desiderano sentirsi parte di un club. I produttori che si focalizzeranno su questi aspetti e che hanno le spalle forti per sostenere la discesa dei consumi nella fase ciclica negativa, avranno un futuro.
I trend in nuce anche pre pandemia
Le tendenze che si sono evidenziate tra 2024 e 2025 si potevano vedere in alcuni segnali già in epoca pre pandemica: l’apprezzamento per i vini freschi, il bianco, lo spumante, il Prosecco, la maggior propensione a bere fuori dai pasti, con gli aperitivi, l’incremento del consumo di vino bianco a sfavore di quello rosso. I nuovi consumatori in Asia, Africa e Cina vanno controtendenza e cercano vini rossi premium e di brand noti.
Le sfide per le aziende vitivinicole italiane
“Le aziende dovranno saper intercettare questi mercati emergenti – dice Jean-Marie Cardebat – e sedurre i giovani nei mercati consolidati, tenendo conto dei trend moderazione e salutismo, e lavorare sui canali di vendita. La parola chiave è prossimità, ovvero saper incarnare il prodotto e il mercato in un luogo fisico specifico, entrare così in contatto con i consumatori e rimanervi grazie ai canali digitali”. Le aziende dovrebbero guardare ai mercati esteri che non hanno barriere commerciali, fare attività di lobbying e nuovi accordi commerciali, perché è finita l’era della globalizzazione, nella quale si esportava in tutto il mondo.
“La relazione con i consumatori diventerà sempre più personalizzata, di prossimità e one to one, grazie alla AI – prosegue – e le aziende dovranno dotarsi di una gamma sempre più ampia per attrarre consumatori diversi in momenti di consumo diversi. Di conseguenza le aziende dovranno essere più grandi e avere un marchio forte e riconosciuto. In Francia il primo concorrente del vino nei ristoranti è l’acqua S.Pellegrino, che non accompagna più il vino, ma lo sostituisce”.
I 9 fattori di resilienza per l’impresa vitivinicola
Davide Gaeta, professore e docente di economia dell’impresa vitivinicola e dei mercati agroalimentari e competitività – Dipartimento di Management – Università degli Studi di Verona, ha stilato un quasi-decalogo per le imprese italiane. I punti sui quali lavorare per guardare con più serenità al futuro.
1 – Struttura d’impresa e governance – L’attenzione a questi due fattori determina la resilienza dell’impresa nel mercato. La governance d’impresa è legata alla dimensione economica.
2 – Trasparenza e apertura del capitale a terzi – La trasparenza, obbligatoria per chi è quotato in borsa, e l’apertura del capitale delle imprese famigliari a terzi sono un passaggio obbligato per le aziende italiane, che sono micro imprese. Ma oltre a essere poco inclini le imprese, anche il mondo bancario è arretrato, fermo a un rapporto con le aziende legato ai prestiti.
3 – Acquisizioni, sentieri di crescita e diversificazione del portafoglio prodotti – Per crescere le aziende hanno bisogno di fare acquisizioni, perché il vino è strettamente legato al territorio. Le acquisizioni rendono anche possibile l’ampliamento del portafoglio prodotti, indispensabile per rispondere alle molteplici richieste di consumatori, Paesi e contesti di consumo diversi.
4 – Identità, personalità di impresa e i vantaggi della prima mossa – I vini e i marchi di successo hanno una forte personalità.
5 – Il vigneto e la flessibilità – I cambiamenti climatici impongono alle imprese di avere più fonti di approvvigionamento per le uve, ma anche di appoggiarsi a forme di indicazione territoriale più flessibili, come l’Igt.
6 – Bilanciamento tra i canali e tra i mercati di vendita – Per affrontare meglio il rischio meglio diversificare e bilanciare sia tra i canali di vendita che tra i mercati mondiali. Per esempio, il vino ha visto crescere in questi anni la rilevanza della gdo nelle vendite.
7 – Il marketing come fattore competitivo – Il marketing è un fattore competitivo ma molte aziende, piccole, non hanno la forza per occuparsene: si potrebbe agire uniti, consorziandosi.
8 – Localismo dei consumi ed enoturismo – Vanno sviluppati consumo di prossimità ed enoturismo. Un esempio: sulla Milano-Venezia circolano in media 40 mila persone, potenziali clienti per il vino locale, se vi fosse un match più efficace tra flussi turistici e territorio di denominazione.
9 – Innovazione, green e sostenibilità – La ciclicità del vino suggerisce un comportamento classico dell’economia: investire nei momenti in cui scendono i consumi. Le direzioni sono quelle espresse dai consumatori: la sostenibilità. L’Europa ha investito molto sul biologico, ma almeno per il vino i consumatori non sono propensi a pagarlo più del prodotto classico.
Il pericolo dei dazi, qualche dato
“Da strumento finanziario e fiscale i dazi oggi sono diventati uno strumento politico – ha detto Davide Gaeta – . Paradossalmente, se la barriera fiscale era la più facile e trasparente per gli esportatori, perché i costi erano chiari; adesso è la più complessa perché viene minacciata e porta incertezza. Per qualsiasi passo, meglio aspettare. Anche se intanto il danno enorme c’è già stato, perché le importazioni di fatto si sono fermate a causa del clima di incertezza”.
“Sono davvero arrabbiato per quello che è successo, per la reazione dell’Europa che non ha saputo adottare un approccio pragmatico – ha detto Jean-Marie Cardebat – Abbiamo 250 miliardi di eccedenza e gli Stati Uniti vogliono togliercela, e noi come Europa abbiamo imposto dazi per rappresaglia sugli spirits e sull’acool, è stato un errore notevole che andrà a svantaggio dell’Europa stessa. Tenendo in considerazione l’elasticità dei prezzi dei vini esportati, se c’è un aumento del 10%, la domanda di vini importati negli stati uniti cala del 7%. Con i dazi al 140% chiaramente la domanda va a 0, se i dazi sono a 200% immaginatevi cosa succederà”.
Anche Sandro Boscaini, presidente di Masi Agricola, detto Mr. Amarone, è intervenuto sul tema dazi: “Guardando la situazione con uno sguardo più aperto è evidente che la situazione che stiamo vivendo è più di cambiamento che di crisi, un cambiamento necessario, non per tutti indolore, che avviene per fattori esterni e che porterà a una nuova fase ciclica come ha detto il prof. Cardebat. Il dazio invece non è un cambiamento ma una grande involuzione, che non è di vantaggio per nessuno. Ogni dollaro che l’Italia guadagna nell’esport del vino per gli Stati Uniti corrisponde a 4,5 dollari di redditività, tasse e costi per i dettaglianti, i distributori, gli enti locali e nazionali. L’Italia è penalizzata su quel dollaro, loro su 4,5 dollari”.
Boscaini ha anche sottolineato il valore culturale e social del vino italiano negli Stati Uniti. Oltre all’Italian style, c’è anche una memoria storica di casa per tanti italo americani, oggi molto forti nell’importazione e nella ristorazione, e per tanti consumatori che amano il vino italiano e non gradirebbero di perdere l’occasione di berlo. “Alle ultime fiere parlando con gli importatori ci si augurava che se proprio dovesse apparire un dazio, si limitasse entro il 10%, perché così si potrebbe ripartire tra produttore italiano, consumatore e importatore statunitense. Ma se il dazio fosse del 24% il valore delle importazioni da 2 miliardi scenderebbe a un miliardo, e se fosse del 200%, sparirebbe totalmente”.
Accanto agli aspetti di congiuntura economica, Boscaini ha anche sottolineato alcuni fattori molto attuali che incidono sulle vendite di vino: il cambiamento climatico e le malattie della vite. “Sono problematiche esterne forti, che stiamo affrontando, ma che molte aziende non sono in grado di affrontare se non altro per mancanza di capitale,
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