Dalla Vecchia (Confindustria Vicenza): non dobbiamo temere Trump, il vero pericolo è la Cina


di
Dario Di Vico

«I dazi? Una strategia. A pagare saranno i consumatori americani», dice l’imprenditrice alla guida di Polidoro (combustione). A Pechino lavorano come matti: possono mangiarci. Da Bruxelles troppa burocrazia

Dazi sull’export, produzione industriale che accentua il calo, politiche industriali europee che faticano a delinearsi, ritardi di Transizione 5.0, dubbi sull’efficacia dell’Ires premiale. Gli imprenditori italiani sono bombardati da input negativi e questo avviene proprio nel momento in cui dovrebbero dare slancio agli investimenti e contribuire alla crescita. Ma che giudizio danno le imprese della situazione internazionale? E che voto assegnano al governo Meloni?
Per tutti lo abbiamo chiesto a Laura Dalla Vecchia, presidente di Confindustria Vicenza, un’imprenditrice che spesso non ha paura di uscire dal coro e di raccontare che cosa pensano davvero i suoi colleghi.
Vicenza, poi, si giustifica in questa reductio ad unum perché è una delle capitali italiane sia della manifattura che dell’export. Dalla Vecchia è reduce da cinque settimane all’estero in cui è stata negli States, in Cina e a Bruxelles. Ed esordisce (provocatoriamente) così: «Non dobbiamo avere paura di Trump».
In linea di principio si può essere anche d’accordo, ma in questa fase di stagnazione economica i dazi americani si tradurrebbero in una legnata per il made in Italy.
«Quella dei dazi è una strategia studiata a tavolino da Trump e dal suo team. Vogliono spaventarci. Ma Trump sa bene che i primi a pagarne gli effetti negativi, in termini di maggiori costi e più inflazione, sarebbero i consumatori americani, cioè l’elettorato che lo ha riportato alla Casa Bianca. Per cui è facile che finisca come è accaduto per Messico e Canada, quando in cambio di contropartite sui controlli anti-Fentanyl i dazi del 25% sono stati sospesi. La manifattura americana non è in grado di fare a meno delle nostre merci, sappiatelo».

Nel suo viaggio americano si è fatta un’idea così negativa dello stato dell’industria a stelle e strisce?
«Gli americani hanno disintegrato la loro manifattura, la globalizzazione li ha portati a comperare tutto all’estero e ci vorranno anni perché siano in grado di produrre le cose che ora importano. Non studiano le tecniche più avanzate di produzione flessibile e snella e poi hanno enormi problemi di mancanza di manodopera specializzata. Trump lo sa e i suoi veri obiettivi sono altri. Diventare leader mondiale nella distribuzione di energia. Per questo ci intima di comperare il loro Gnl, il gas naturale liquefatto, per evitare i dazi. Ma sarebbe un errore».
Quindi teme di più l’approvvigionamento sostitutivo di Gnl che i dazi?
«Il nostro governo deve capire che non si possono aumentare i costi dell’energia, il loro rialzo continuo fa crescere i costi di produzione e ci butta fuori dal mercato. Non dobbiamo legarci a lungo termine agli americani, ma il governo deve valorizzare la nostra posizione geografica strategica. Va nella direzione giusta il piano Mattei e bisogna comperare energia da più venditori al costo più basso possibile. Non valgono le bandiere. Sul breve periodo è questo l’indirizzo giusto, sul medio c’è invece il nucleare. Le dico che anche il Ponte sullo Stretto, che a noi veneti fa venire i brividi, può servire a rafforzare la nostra posizione strategica nel mercato dell’energia. La Sicilia può avere un ruolo importante nelle politiche dell’energia di domani».




















































Lei è stata anche in Cina. Che impressioni ne ha tratto?
«Che dovremmo costruire relazioni più solide. Ma mi sono fatta l’idea che Pechino abbia enormi problemi a sviluppare il mercato interno e a contrastare la disoccupazione. Proprio per questo c’è il rischio che manovrino soltanto la leva dell’export e ci inondino di loro prodotti a basso costo. Oppure comprino le nostre aziende migliori. E allora dobbiamo reagire, dobbiamo essere noi ad acquistare piccole aziende in America e in Cina. Anche un imprenditore veneto può farlo con qualche decina di milioni, non è impossibile. Invece oggi sta succedendo che i fondi americani stanno acquisendo aziende vicentine a man bassa. Però sulla Cina c’è anche da fare un’altra considerazione, che probabilmente suonerà impopolare in Italia».
La faccia.
«I cinesi hanno contratti di lavoro con la parte fissa molto bassa e quella variabile fatta di tantissimi bonus, che alla fine possono anche triplicare lo stipendio finale. Per questo motivo lavorano come pazzi, non c’è orario e alla fine sviluppano in due anni progetti che ne richiederebbero almeno cinque. Da noi invece si fa il contrario, si parla del tempo libero, di andare al mare. Bisogna tornare a lavorare seriamente, smetterla con lo smartworking altrimenti i cinesi ci mangiano. Sono considerazioni che non piacciono, ma sono la realtà. E per questo ho più paura dei cinesi che dei dazi di Trump».

Che giudizio complessivo dà dell’azione del governo Meloni?
«Penso che il governo Meloni abbia fatto bene a criticare le politiche protezioniste, dicendo no ai contro-dazi, e a chiedere di rivedere il disastroso Green Deal. La transizione ha bisogno di più tempo perché il consumatore possa comperare l’auto elettrica o la pompa di calore. A meno che non si voglia incentivare la vendita di prodotti cinesi. Il sistema ideato per la Transizione 5.0 non si è rivelato come nelle aspettative e non ha bissato il successo di Industria 4.0. Quanto all’Ires premiale, è un provvedimento positivo, ma perché si torni a investire serve anche che ci sia il mercato. E oggi non c’è. Comunque ha molte più colpe Bruxelles che Roma, anche perché quasi tutto si decide nella capitale belga. Vuole qualche esempio?
Certo.
«La burocrazia di Bruxelles ci rende la vita impossibile. Sull’industria della concia, ad esempio, pende la spada di Damocle del tracciamento delle pelli delle mucche per effetto della legge contro il disboscamento. Da noi è così, in Cina invece vendono borsette senza problemi di tracciabilità. La plastica è riciclabile al 100%, è solo questione di educazione e cultura di popolo. Perché combatterla? L’auto è ferma perché per effetto del Green Deal nessuno sta più comprando, c’è solo il noleggio. Bisogna semplificare tutto, in azienda abbiamo dentro quattro o cinque organi di controllo ed è tutta gente che noi paghiamo per produrre carta su carta. È una follia europea. Le colpe sono di Ursula Von der Leyen, con la confusione che ha creato ha generato lei l’anti-europeismo».
Le imprese si lamentano anche dei prestiti che le banche accorderebbero con il contagocce e impediscono così di investire. È così?
«Il problema principale del calo degli investimenti è la mancanza di una visione chiara, che deve essere dettata dall’Europa per definire su quali prodotti dobbiamo credere e dove andiamo sul tema dell’energia. Lo spettro si chiama incertezza».

20 marzo 2025



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