Mobilitare 200 miliardi di dollari all’anno, da qui al 2030, per la protezione della natura. È l’impegno con cui si è chiusa a Roma la seconda parte della Cop16, la sedicesima Conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità. Un sospiro di sollievo giunto ai tempi supplementari, dopo lo smacco di quattro mesi prima a Cali, in Colombia, quando i lavori erano stati interrotti per mancanza del numero legale senza alcun accordo sul tema – cruciale – dei finanziamenti. È un passo avanti, senza dubbio. Ma da solo non basta per salvaguardare la vita animale e vegetale sul nostro Pianeta. Serve molto di più: serve un ripensamento profondo del ruolo della finanza nella nostra società. È la tesi di un editoriale pubblicato da BankTrack.
Cosa è stato deciso a Roma alla Cop16 bis
Sono passati quindici anni da quando, nella città giapponese di Nagoya, la decima Conferenza delle parti si era chiusa con un Piano strategico per la biodiversità. Si snodava su venti obiettivi, i cosiddetti Aichi Target, validi per il periodo 2011-2020. Non ne è stato raggiunto nessuno. Con l’adozione del successivo Quadro globale per la biodiversità di Kunming-Montreal, i membri della Convenzione sulla diversità biologica sembrano aver imparato la lezione. Ben vengano gli obiettivi – in questo caso quattro, con 23 target da raggiungere entro il 2030 – ma devono esserci anche le risorse per metterli in atto. Era questo il grande tema della Cop16.
Seppure con fatica, il summit è arrivato a un risultato: questi 200 miliardi di dollari all’anno per il prossimo quinquennio da mobilitare attivando fonti pubbliche, private e partnership tra le due. Di questi, 30 all’anno – sempre entro la fine del decennio – sotto forma di aiuti per i Paesi in via di sviluppo. È qualcosa, ma non abbastanza. Perché chi ha provato a calcolare la somma necessaria per fermare e invertire la perdita di biodiversità è arrivato a un totale ben più alto: tra i 700 e i 950 miliardi di dollari annui. Ma è anche una questione di qualità, non solo di quantità. Perché, si legge su BankTrack, «i progetti di ripristino o conservazione della natura sono altamente vulnerabili allo sfruttamento e al greenwashing». Da qui la richiesta esplicita di svilupparli mettendo al centro i diritti dei popoli indigni e delle comunità locali.
Il ruolo delle banche private nei finanziamenti a favore della biodiversità
Dal momento che è impensabile raggiungere cifre del genere attingendo soltanto alle casse pubbliche, le banche sono parte integrante di questo percorso. A loro – e alle società finanziarie in senso più vasto – si rivolge il quindicesimo target del Global biodiversity framework, che le invita a eseguire un’analisi di doppia materialità. Ciò significa valutare sia il proprio impatto sulla natura, sia gli eventuali rischi che la perdita di biodiversità comporta per il loro business. Aspetti che hanno entrambi un’enorme rilevanza.
Secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), infatti, ad oggi i flussi finanziari privati a favore delle soluzioni basate sulla natura ammontano a 35 miliardi di dollari all’anno. Briciole, se confrontati con i 5mila miliardi che hanno un impatto negativo sulla natura stessa. Dall’altro lato, il nostro sistema economico si regge grazie ai servizi ecosistemici: senza di loro, più di sette imprese su dieci nell’area euro sarebbero costrette a chiudere i battenti. Trascinando con sé finanziatori e investitori. Per questo, la Banca centrale europea vuole assicurarsi del fatto che gli istituti di credito tengano in considerazione i rischi legati alla natura, oltre a quelli legati al clima. E minaccia sanzioni per chi non lo farà.
Ma se i numeri sono questi, se l’emergenza in atto è così pressante, per invertire basterà qualche sporadica multa? Secondo l’editoriale di BankTrack, le banche possono fare molto di più: possono cambiare il sistema dall’interno, se lo vogliono. Per esempio misurando il proprio successo sulla base del benessere che generano nel lungo termine per l’ambiente e per la società, e non più sulla base dei profitti annuali. Allineando i propri modelli di gestione del rischio ai limiti planetari. Misurando la solidità del proprio portafoglio in termini di resilienza alla crisi climatica. È un’utopia? Non esattamente: le banche etiche lo fanno da anni.
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