La lezione di Draghi sulla difesa europea è stata recepita da Leonardo: intese con la tedesca Rheinmetall, la turca Baykar, l’inglese Bae e la francese Thales
Nel 2022 Melitopol è stata una delle prime città ucraine a cadere in mano russa. All’invasione sono presto seguiti i saccheggi. Le truppe di Mosca hanno rubato a un rivenditore locale trattori e macchinari agricoli prodotti dall’americana John Deere per poi spedirli in Cecenia, a oltre mille chilometri di distanza. Una volta a destinazione, però, i mezzi non sono partiti: John Deere li aveva disabilitati da remoto.
Qualcosa di simile potrebbe accadere anche agli equipaggiamenti militari fabbricati negli Stati Uniti? La domanda è rimbalzata sulle prime pagine di molti quotidiani europei dopo le dichiarazioni dell’ex capo dell’intelligence militare francese, Christophe Gomart.
Il pulsante di blocco: il «kill switch» che spegne la difesa Ue
«Se gli Stati Uniti attaccassero la Groenlandia, nessun Paese europeo potrebbe far decollare i suoi F-35 per difenderla, perché questi jet sono dotati di un sistema di blocco che impedirebbe il decollo se il piano di volo non fosse approvato dal Pentagono», ha detto Gomart, oggi eurodeputato del Ppe.
L’esistenza di un interruttore di emergenza («kill switch») sugli F35 prodotti dalla Lockheed Martin è dibattuta da tempo. Qualcuno la considera ovvia; altri la derubricano a leggenda, buona anche per spingere gli ordini dei caccia francesi Rafale.
Altri ancora rimarcano che il pulsante di blocco non serve: a Washington basterebbe interrompere le forniture di ricambi e gli aggiornamenti software per lasciare a terra gli F35 europei.
Segreto militare o teoria del complotto, il fatto stesso che se ne discuta non più nei ristretti circoli di esperti militari ma sui media di Germania, Regno Unito e Belgio dimostra che la fiducia nel mutuo soccorso fra le due sponde dell’Atlantico si è incrinata. A tal punto da portare la Commissione Ue a elaborare un piano da 800 miliardi per riarmare il Vecchio Continente contro la Russia e le altre minacce alla sicurezza. Dando preferenza a equipaggiamenti di fabbricazione domestica.
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Flotte e ombrelli
Oggi l’Europa dipende dall’industria della difesa americana, vuoi perché si è cullata nella sicurezza dell’alleanza con Washington, vuoi perché le forniture dagli Usa erano il costo dell’ombrello del Patto Atlantico. Sette Paesi Ue, calcola Jefferies, hanno flotte composte solo da caccia Made in Usa. Se si tiene conto non solo dei jet in attività ma anche di quelli ordinati, poi, in Europa il «domestico» Eurofighter cede il passo all’F35 americano (381 a 399 che potrebbero diventare 424 se il Parlamento italiano autorizzerà la commessa da 7 miliardi di altri 25 F35). Secondo il centro di ricerca Sipri, più in generale, fra 2020 e 2024 i Paesi Nato europei hanno più che raddoppiato le importazioni di armi rispetto al periodo 2015-2019 e la quota degli Stati Uniti in questa ricca torta è salita al 53%.
I punti deboli
Il passaggio dalla volontà politica europea di autonomia alla sua attuazione non sarà quindi semplice né veloce. La questione non è tanto economica. A parità di potere d’acquisto, stima l’Osservatorio Conti Pubblici Italiani, nel 2024 la spesa militare dell’Ue ha sopravanzato quella russa del 18,6%: 547,5 miliardi contro 461,6. Il problema maggiore è la pianificazione e la distribuzione delle risorse. «Se l’Ue non può più contare sull’alleanza storica con gli Usa ma deve schierarsi in prima linea per la sua sicurezza, è inevitabile che faccia maggior ricorso all’industria europea per le forniture di difesa — dice Fabrizio Pagani, partner della banca d’affari Vitale e già capo della Segreteria tecnica del Mef —. Perché l’offerta continentale si adegui alla crescita della domanda di armamenti, però, i governi Ue devono fare ordini pluriennali che diano visibilità sul medio termine e consentano alle aziende di programmare gli investimenti e l’aumento della capacità produttiva».
Il ruolo chiave di Leonardo
L’altro grande elemento di debolezza del sistema europeo di difesa è la frammentazione politica e, quindi, industriale. La spesa Ue per i mezzi militari di terra, aria e mare è ripartita fra 30 progetti; negli Usa le piattaforme sono 12, meno della metà. Ciò comporta una dispersione degli investimenti su progetti che spesso mancano della dimensione necessaria a essere competitivi su tecnologia e costi. Nel suo rapporto, perciò, Mario Draghi ha esortato ad accelerare le aggregazioni nella difesa europea. Leonardo ha raccolto l’invito e sta diventando il perno di tante alleanze: sui carri armati con la tedesca Rheinmetall, sui droni con la turca Baykar, sui caccia di sesta generazione con la britannica Bae Systems e la giapponese Mitsubishi, con i francesi di Thales (e forse di Airbus) sui satelliti. Da queste joint-venture il gruppo guidato da Roberto Cingolani si attende un contributo miliardario a ordini e fatturato, specie se la domanda europea salirà. Leonardo ha stimato che l’aumento di un punto di Pil della spesa per la difesa in Italia si tradurrebbe in almeno due-tre miliardi di attività addizionale. Stesso risultato se un incremento simile riguardasse gli altri Paesi Ue.
Opportunità e sfide della difesa unica europea
È un’opportunità enorme per i gruppi europei della difesa e per il loro indotto, certo. Ma anche un’enorme sfida per un’industria che, dopo decenni di scarsi investimenti, dovrà trovare il modo di soddisfare la ripida ascesa della domanda e il senso di urgenza che la anima. Leonardo sta studiando come aumentare la capacità produttiva, facendo leva anzitutto sugli impianti e sui distretti dove già opera. E, mentre il governo italiano intende incentivare la riconversione delle aziende dell’auto (anche) verso la difesa, in Germania Rheinmetall sta già valutando di rilevare da Volkswagen il sito di Osnabrück, uno dei tre della casa destinati alla chiusura, per trasformarlo in una fabbrica di carri armati.
Questo «scambio auto-panzer» darà slancio all’economia? Il Kiel Institute stima un aumento del Pil europeo fra lo 0,9 e l’1,5% all’anno, se i Paesi Ue aumenteranno la spesa annuale per la difesa al 3,5% del Pil e la indirizzeranno soprattutto verso prodotti nazionali. Altri studiosi sono meno ottimisti ed evidenziano il rischio che la corsa al riarmo si riveli una profezia autoavverante di conflitto, con ricadute molto negative. «Lo sforzo bellico sostiene la domanda aggregata e può stimolare l’innovazione, ma distorcendone gravemente le finalità — ha detto il governatore di Banca d’Italia, Fabio Panetta —. I benefici economici sono però transitori e non eliminano la necessità di riconvertire l’economia una volta concluso il conflitto, anche nei Paesi coinvolti che non abbiano subito danni diretti sul territorio. La produzione di equipaggiamenti bellici non contribuisce ad aumentare il potenziale di crescita di un Paese; lo sviluppo deriva dagli investimenti produttivi, non dalle armi».
L’impatto sulle Borse e il paradosso azionario
Se l’impatto economico dell’aumento della capacità militare è insomma incerto, quello finanziario è invece già evidente: nell’ultimo anno l’indice europeo delle azioni della difesa e dell’aerospazio è salito del 44%, trainato dai rialzi di Rheinmetall (+206%) e Leonardo (+114%). Per paradosso, a comprarne i titoli sono stati spesso investitori del Paese che, dopo la Russia, ha più contribuito ad alimentare l’onda del riarmo europeo. Oggi, calcola Jefferies, circa il 30% del capitale di Leonardo e oltre il 60% delle azioni di Rheinmetall e Bae Systems sono in mano a fondi statunitensi.
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