Tutele crescenti, riforma «epocale» ormai fallita


Dieci anni di fregature e precarietà per i lavoratori. Dieci anni di risparmi e maggior potere per le imprese. Il 7 marzo 2015 entrava in vigore il contratto a tutele crescenti, fulcro del Jobs act firmato Matteo Renzi. La beffa lessicale contenuta nel decreto legislativo numero 23 non è mai stata ammessa dagli autori e da chi se ne è avvantaggiato. Le «tutele crescenti» infatti non esistevano. La differenza consisteva semplicemente nel fatto che chi veniva assunto a tempo indeterminato dopo quella data non aveva più l’articolo 18: la tutela della reintegra in caso di licenziamento. Una apartheid per i neo assunti che lavoravano fianco a fianco con colleghi più tutelati. Allo stesso tempo licenziare per le imprese è diventato più facile e meno costoso: da quel giorno basta pagare una piccola indennità senza strascichi giudiziari. Altro aspetto dell’apartheid che pochi ricordano: il contratto a tutele crescenti valeva solo per «operai, impiegati e quadri». Dalla nuova disciplina erano e sono dunque esclusi i dirigenti che continuano ad avere gli stessi diritti di prima.

L’allora presidente del consiglio e segretario del Pd la considerava «una riforma epocale» che mandava in soffitta il sindacato che «ancora metteva il gettone nell’iphone». Sebbene lo parlasse male, Matteo Renzi ha sempre usato fin troppo l’inglese. Rubò il nome della “riforma” da Barack Obama, echeggiando il discorso del presidente Democratico del 2011. Peccato che la legge statunitense prevedesse 450 miliardi di dollari in investimenti, opere pubbliche e incentivi fiscali a famiglie e imprese per creare lavoro, mentre la versione italiana si limitava a togliere diritti ai lavoratori con zero investimenti pubblici mentre gli sgravi alle imprese li avrebbe elargiti con la legge di bilancio del 2015: circa 14 miliardi per stabilizzazioni di contratti a termine, in gran parte non avvenute. Pietro Ichino (ideologo della riforma) lo definì un «contratto stabile-flessibile». Un ossimoro. A tutto vantaggio delle imprese che poterono avere manodopera licenziabile anche a tempo indeterminato. Era il trionfo del cosiddetto «costo di licenziamento»: ogni impresa sapeva in qualsiasi momento quanto avrebbe dovuto pagare per liberarsi di un lavoratore sgradito. Insomma, come sintetizzò la professoressa Natalia Paci, tutele crescenti sì ma «per i datori di lavoro».

La «riforma epocale» del Jobs act (partita con il decreto Poletti che rendeva molto più facili i contratti precari) si è presto rivelata un “fallimento”: da gennaio a ottobre del 2015 l’incidenza del tempo indeterminato scese dall’86,4% all’85,4% mentre quella del tempo determinato è salita dal 13,6% al 14,6%. Neanche le imprese avevano sfruttato il regalo delle tutele crescenti. Nel 2018 successe di tutto. I referendum della Cgil di Susanna Camusso che puntavano al ripristino (e allargamento) dell’articolo 18 furono bocciati dalla Corte costituzionale guidata da Giuliano Amato in una votazione strettissima e non senza polemiche interne. Ma il 26 settembre la stessa Corte costituzionale poi distrusse l’architrave del contratto a tutele crescenti dichiarando «illegittimo il criterio di determinazione dell’indennità di licenziamento»: «La previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con gli articoli 4 e 35 della Costituzione», che fanno riferimento alla «condizioni del lavoro» e la «elevazione professionale».

Il decreto Dignità del governo giallo-verde Conte I, firmato da Luigi Di Maio, decise di aumentare le indennità. Ma non di ripristinare l’articolo 18, nonostante una proposta di legge di Sinistra italiana. Ben quattro altre sentenze (su soli 11 articoli della legge) hanno sancito l’incostituzionalità del tutele crescenti. Le ultime due sentenze del 2024 (numero 128 e 129) hanno addirittura sancito l’incostituzionalità della norma (articolo 3 primo comma) laddove non prevede la reintegrazione per il licenziamento in cui sia insussistente il giustificato motivo oggettivo e senza giusta causa. Ora la Cgil di Maurizio Landini ci riprova. Il primo dei cinque referendum della prossima primavera (il governo Meloni sta ritardando la fissazione della data) riguarda proprio la norma del Jobs act renziano: «Volete voi l’abrogazione del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?».

La vittoria del Sì ripristinerebbe per tutti i lavoratori nelle aziende con più di 15 dipendenti l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, nella versione Fornero: reintegra nei casi più gravi di licenziamento illegittimo. Anche il secondo quesito è legato al famigerato tutele crescenti. Riguarda infatti i licenziamenti nelle imprese sotto i 15 addetti proponendo che sia il giudice a decidere, mentre ora sono previste solo indennità. La sfida di far andare alle urne la maggioranza degli aventi diritto (circa 26 milioni di italiani) è da far tremare i polsi. Ma per qualche mese il paese tutto tornerà a discutere dei diritti dei lavoratori. Ed è già una svolta.



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