I corsi di formazione sull’intelligenza artificiale dell’azienda italiana Talent Garden sono coperti da fondi pubblici all’80-90% in Francia e Germania. E in Italia? Allo 0%. Non un gran bel segnale: a quanto pare il Belpaese non ha compreso che proprio l’IA può mettere le ali alle Pmi. «Spesso tra i casi virtuosi di aziende che hanno saputo sfruttare le potenzialità dell’IA ci sono aziende di piccole dimensioni, grazie alla loro stessa agilità» dice in questa intervista a Economy Davide Dattoli, presidente di Talent Garden.
Dattoli, non è che le imprese italiane, in particolare le Pmi, stanno perdendo l’occasione per migliorare la propria produttivit‡ in tempi brevi utilizzando l’IA?
Proprio così, per due motivi. Storicamente, il livello di digitalizzazione delle nostre Pmi è molto basso. Sono imprese con un’età media abbastanza avanzata e molto chiuse su se stesse, e quindi poco avvezze all’investimento su temi di medio-lungo termine. Nel breve credo che si sia aggiunto un ulteriore elemento, cioè il fatto che l’IA sia stato il primo fenomeno tecnologico nel quale non ci sia stato il tempo tecnico di passare da quelli che normalmente si chiamano gli early-adopter. Lo stesso internet ci ha messo più di 15 anni prima di diventare mass market, all’inizio era una cosa da centro di ricerca. Al contrario l’IA ce la siamo ritrovata su tutti i principali giornali e notiziari al mondo da un giorno all’altro. Questo ha fatto sì che la tecnologia in sé non fosse ancora forse così pronta per supportare l’utilizzo vero nel day by day. Negli ultimi due anni, da quando la materia è diventata più nazional-popolare, in realtà hanno cominciato a esserci tanti use case. Ma allo stesso tempo è innegabile che ci sono stati anche tanti che hanno detto: vabbè, tanto gli impatti dell’IA sono limitati. Ma la verità è che gli impatti veri invece sono enormi, e sono nel breve termine, quindi la necessità delle imprese di investire è veramente elevata.
Cosa serve per cambiare marcia?
Che questo cambiamento parta non tanto dall’ennesimo investimento, quanto sul piano formativo. Si tratta di far capire alle persone che cambierà il modello di business e quindi il modo in cui lavorano, non perché fa figo ma perché l’efficienza operativa che si crea è importante. Abbiamo due grandi stream di progetto, l’anno scorso abbiamo attivato 70 corsi e formato più di 30.000 persone tra individui e aziende su questi temi. Da un lato c’è una formazione più orizzontale, con la quale diamo un’infarinatura su che cosa l’IA di fatto può inserire all’interno delle organizzazioni, e come può farlo. L’altro canale su cui ci focalizziamo è quello di una formazione più verticale: la grande sfida per le Pmi italiane è capire per ogni singola professione, per ogni singola opportunità professionale, qual è davvero l’evoluzione che deve avere quel ruolo. Per esempio siamo partiti con un grande gruppo assicurativo sulle persone che lavorano nel risk; ma anche in campo di hr, o in quello del marketing: come cambiano queste funzioni grazie all’IA? Stiamo costruendo un catalogo con più di 50 prodotti formativi che aiuta le funzioni aziendali a migliorare, a diventare più produttive.
Ci sono casi di aziende che invece hanno capito, si sono tempestivamente adattate e hanno avuto dei risultati tangibili?
Ce ne sono tanti, aziende e organizzazioni del manifatturiero e dei servizi, spesso di piccole dimensioni: sono molto più snelle, e questo rende molto più facile la messa a terra. Se riescono da subito a capire le possibilità di aggiornamento, abbiamo visto dei risultati enormi proprio nel cambiamento del modello operativo.
Di quanto possono migliorare le performance di queste aziende?
Quel che cambia è la produttività per singola persona. Analizzando numerosi casi, ci siamo resi conto che in questa fase la capacità di elaborare task e attività di un singolo individuo può aumentare già del 30-40%. E siamo soltanto all’inizio della sfida tecnologica. È molto probabile che nei prossimi 18-24 mesi questa percentuale possa aumentare.
Qual è il quadro che emerge dalle persone che vedete partecipare ai vostri corsi?
Diciamo che ci sono tre grandi macromondi. Il primo è quello dell’alfabetizzazione. Tra i partecipanti c’è tanta curiosità, un po’ di scetticismo e un po’ di paura, come per tutte le cose nuove. L’obiettivo è far comprendere che l’IA è qualcosa che può aiutarli a mettere a terra quello che fanno tutti i giorni in modo più specifico. Il secondo è quello dell’upslkilling verticale: ci siamo resi conto che circa il 60-70% delle persone riesce a cambiare il proprio modo di lavorare, grazie a dei tool che li aiutano a lavorare in modo diverso. Il terzo mondo, nel quale stiamo vedendo risultati molto positivi, è quello del reskilling. Per fare un esempio, figure che stavano allo sportello nel mondo bancario sono diventate analisti funzionali. Abbiamo fatto un progetto con Fideuram e Intesa San Paolo, cui hanno partecipato persone over 45 con 2 anni di disoccupazione alle spalle: il 60% di loro è riuscito a reinserirsi nel mercato del lavoro. Questa credo che sia una dimostrazione che la formazione deve essere fatta a tutte le età.
Siete sostenuti in questo sforzo?
In Italia non è così facile: tutta la formazione che facciamo non è supportata da fondi pubblici. La maggior parte dei corsi di formazione in Italia è organizzata a livello regionale, spesso di bassissimo livello e su temi non più attuali. Addirittura la formazione regionale oggi non gestisce l’e-learning, deve essere erogata tutta in presenza. Ma noi come Talent Garden siamo attivi in 12 Paesi in Europa, e accreditati come ente formativo in 5.
E all’estero con funziona?
Francia e Germania, per esempio, negli ultimi anni hanno fatto investimenti pubblici enormi, con dei bandi specifici. In quei paesi l’80-90% del revenue di Talent Garden deriva da fondi pubblici, in Svezia per fare un altro esempio il 70%. In Italia siamo vicini allo 0%.
Nemo propheta in patria…
Già. È che ancora da noi a livello pubblico non si è compreso che serve uno sforzo non solo dell’università, ma anche del settore della formazione privata per il reskilling e l’upskilling nelle imprese. Noi oggi siamo molto focalizzati sul middle management, su tutte quelle figure operative all’interno delle organizzazioni che mettono a terra le IA transformation di tutti i principali dipartimenti, che vogliono venire a capire come aggiornare le proprie competenze. Sono gli imprenditori, sono gli amministratori delegati, ma ci sarebbe da fare molto di più. Il problema è che spesso la tecnologia in Italia viene vista come qualcosa da delegare. Io non ne capisco, ma capisco che è importante e chiedo a qualcuno di farlo. Ma l’impresa di oggi, e quella del futuro, richiede una competenza tecnologica anche nei dirigenti.
Che altro non abbiamo capito?
Abbiamo un’opportunità, perché l’IA sta passando dal software all’hardware. Gli ultimi talk di Nvidia, per esempio, sono tutti orientati al robotics, per il mondo industriale e non solo. L’IA va a controllare di fatto anche il mondo fisico. E qui c’è forse l’opportunità per l’Italia: le piattaforme IA sono state sviluppate negli Stati Uniti, ma la loro manifattura non è molto sviluppata, quindi non hanno modo di sviluppare l’integrazione con le macchine. C’è dunque la possibilità di sviluppare l’integrazione tra IA e manifattura italiana, su cui siamo molto forti, anche grazie ai piani 4.0 e 5.0: ma serve uno sforzo sulla formazione.
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