Il nuovo corso americano sorprende mercati, imprese e stati. L’Europa dovrà imparare a essere più indipendente. Gli scenari che ci aspettano
«Tre cose sono necessarie per governare: armi, cibo e fiducia. Non potendo averle tutte e tre, il governante rinunci prima alle armi, poi al cibo. La fiducia va conservata fino all’ultimo, perché di essa non possiamo fare a meno». La frase è di Confucio ed è, seppur ribaltata, di estrema attualità. Nell’incerto governo di una globalizzazione sempre più frammentata la prima vittima è stata la fiducia reciproca. Lo ricorda anche Martin Wolf nel suo bel libro su «La crisi del capitalismo democratico» (Einaudi).
Con la Cina che si avvia ad essere la prima superpotenza e con le quotidiane pulsioni autoritarie della «presidenza imperiale» di Donald Trump, capitalismo e democrazia hanno preso strade diverse. Un clamoroso divorzio. La frammentazione è accelerata dal tramonto del sistema multipolare nelle relazioni internazionali e dal ritorno di una muscolarità bilaterale nei rapporti commerciali. Una politica delle cannoniere del XXI secolo. Il primo cancelliere tedesco, Otto von Bismarck, ora che un suo successore, Friedrich Merz, è impegnato nel riarmo, apprezzerebbe. Nel giro di poche settimane si sono sommate alcune novità geopolitiche di grande rilevanza.
I cambiamenti
Ai mercati finanziari — luoghi di elezione del cinismo contemporaneo — non sono in un primo momento dispiaciute. Questa, se volete, è un’ulteriore conseguenza della perdita della fiducia reciproca tra ex alleati. Anche la voce grossa appare poco credibile, ma fino a un certo punto. Ci siamo ridotti, nel commentare annunci e ordini esecutivi, a sperare che le minacce siano solo boutade del nuovo potere, frasi ad effetto buttate nell’infosfera che magari durano lo spazio di qualche ora.
Nessuno si indigna più. Ed è persino peggio. L’indifferenza per i modi e le parole (dal video su Gaza alla «gold card» per tutti i miliardari immigrati del mondo) deprime il valore delle regole e incoraggia il cosiddetto moral hazard, la spregiudicatezza dei comportamenti. Sul finire della scorsa settimana, l’atmosfera sui mercati finanziari è però cambiata. Le preoccupazioni sono cresciute. Gli indici ne hanno risentito.
Parole e fatti
«É ancora presto — commenta Matteo Ramenghi, chief investment officer di Ubs — per giudicare l’attendibilità degli obiettivi dell’amministrazione Trump. L’impatto delle misure effettivamente approvate non è così grande da modificare, per il momento, la traiettoria della crescita e della finanza pubblica. È stata data grande enfasi ai tagli della spesa pubblica, ma i licenziamenti riguardano finora lo 0,1% della forza lavoro statunitense. Sull’immigrazione il ritmo dei rimpatri è inferiore a quelli che fece Obama. I mercati sono ovviamente più preoccupati dalla ventata di dazi. Ma sulle importazioni cinesi sono per ora meno della metà di quelli minacciati in campagna elettorale. La principale sorpresa sono i dazi del 25% per cento contro Canada e Messico, salvo compromessi dell’ultima ora. L’Europa è, a sua volta, colpita da dazi del 25% sulle importazioni di acciaio, alluminio e altri prodotti metallici.
L’Unione europea appare comunque disponibile a ridurre i propri sulle auto e a trattare un accordo che preveda maggiori acquisti di gas liquefatto (Gln) e di componenti militari.
Pechino potrebbe impegnarsi, invece, ad acquistare più titoli di Stato americani, oltre che agire sulla leva del cambio per neutralizzare il rialzo delle tariffe. In ogni caso maggiori dazi e minore immigrazione avranno un impatto sull’inflazione. La battaglia elettorale, ricordiamo, è stata vinta da Trump anche e soprattutto sull’elevato livello di alcuni prezzi».
Le scelte dei gestori
Chi gestisce risparmi e investimenti si trova di fronte ad alcune scelte di non poco conto. L’Atlantico è più largo. I Paesi europei sono costretti a rendersi più autonomi dalle scelte americane. E dunque, di conseguenza, nell’asset management bisogna adeguare i pesi allo scenario geopolitico in vorticosa trasformazione? Le piazze finanziarie americane coprono però il 65% dei valori trattati. E sono quelle che, in questi anni, hanno offerto, in un’economia in forte crescita, i rendimenti migliori. L’Eurozona vale solo l’8%. Forse si può rivalutare un po’ la Cina (che al momento rappresenta il 3%) ma è difficile che i portafogli, anche e soprattutto europei, cambino rotta.
Contano i rendimenti attesi. Il sovranismo non protegge i risparmi. Queste pulsioni geopolitiche mettono però in luce altri fattori di criticità. Il livello della liquidità, negli ultimi trent’anni, non è mai stato così elevato. Se guardiamo, per esempio, al valore del mercato dei fondi monetari americani, è passato in pochi anni da tremila a settemila miliardi di dollari. C’è così tanta liquidità che alla fine non fallisce nessuno. Cioè il sistema non si depura di chi va male.
Il fenomeno delle criptovalute
E poi c’è il fenomeno delle criptovalute. La Casa Bianca ha vietato alla Fed di fare esperimenti sulla valuta digitale che sarebbe un’alternativa trasparente alle criptovalute, scambiate solo in dollari. La cripto di Trump, dal debutto della presidenza, vale la metà. Quella della first lady Melania un decimo. Come nota Ignazio Angeloni, intervistato da Stefano Feltri su Appunti, si apre per le banche centrali, in particolare per la Bce, soprattutto se dovesse venir meno la sponda americana, una fase di profonda riflessione sulla concreta operatività e scambiabilità delle valute digitali.
Il Bitcoin, che quota attorno agli 80 mila dollari, secondo un Premio Nobel dell’Economia come Eugene Fama, nel giro di dieci anni andrà a zero. Colpisce che non si colga l’elemento di potenziale instabilità dell’abnorme e incontrollato sviluppo delle criptovalute, il cui valore è stimato in circa 3 mila miliardi di dollari. Ai gestori italiani è fatto divieto di proporle ai risparmiatori. Meno male. Ma vi sono prodotti finanziari, in particolare Etf stranieri, che le incorporano nei sottostanti e sono facilmente acquistabili.
Il petrolio, i prezzi e la sostenibilità
Un altro grande interrogativo riguarda le quotazioni del petrolio. Trump promette di abbassare il costo dell’energia, anche accelerando la pace in Ucraina. I negoziati con la Russia sono iniziati in Arabia Saudita. Intorno a un tavolo i tre più grandi Paesi produttori. Tutti interessati ad abbatterne i prezzi? Trump sicuramente sì. Lo ha promesso. È un suo cavallo di battaglia. Un cittadino americano consuma mediamente 25 barili all’anno (ogni barile sono 159 litri). In Italia siamo, si fa per dire, più parchi, ma 7 barili a testa sono comunque un’enormità. Alla faccia della sostenibilità di cui si parla ormai troppo poco.
Debiti mondiali
E poi ci sarebbe anche il debito mondiale che lo scorso anno è cresciuto di 7 mila miliardi raggiungendo il record globale di 318 mila miliardi. Ma per armarsi, soprattutto in Europa, bisognerà farne di più. Molto di più. Debito comune o no? «Questo è il grande interrogativo — conclude Ramenghi — perché l’amara realtà è che senza debito comune sarà estremamente difficile avvicinarsi ai desiderata americani. E chiedere ai Paesi europei, specie a quelli più indebitati, di stressare i propri bilanci nazionali finirebbe per sottrarre risorse alla crescita, peraltro già modesta». Con conseguenze politiche, aggiungiamo noi, del tutto imprevedibili.
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